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martedì 24 dicembre 2013

La statua di sant’Antonino a Piacenza


Da oltre dieci anni ruota incessantemente in fondo al Pubblico Passeggio a Piacenza, proprio dove oggi una rotonda le fa da cornice; non ci stiamo riferendo a una trottola o a una giostra come a qualcuno piace paragonarla, ma alla statua simbolo della cristianità piacentina, il simulacro dedicato al nostro Santo, e donato ai piacentini da benefattori.
Ebbene sì, un complicato congegno elettromeccanico permette alla statua di sant’Antonino di ruotare di ben novanta gradi ogni ora, e proteggere così tutte le parti della nostra città, come in un rito apotropaico di tutto rispetto.
Le vicende legate a questo emblema sono tantissime e ricche di dettagli, ma in questa sede saranno trattate sinteticamente con il solo scopo di fissare alcuni dati importanti e condividere alcune peculiarità circa quest’opera straordinaria.
L’idea di donare una statua con l’effige di sant’Antonino a Piacenza nacque dall’unione di numerosi Club legati al territorio e con il sostegno inoltre delle amministrazioni locali, Diocesi e Fondazioni.
L’opera fu progettata dal Maestro piacentino Sergio Brizzolesi che dopo aver realizzato il bozzetto con la visione di un giovane soldato del cristianesimo che regge con una mano lo stendardo cittadino e con l’altra una croce, stupì i presenti che promossero questa concezione innovativa di sant’Antonino.
Allo stesso tempo però, si avviò un meccanismo poco felice, soprattutto tra i cittadini che puntarono il dito verso questa realizzazione, sia per i costi e soprattutto per la sistemazione della stessa.
La discussione sulla posizione fu accesissima, tanto che si pensò di aprire un referendum sul giornale locale e le proposte dibattute furono in elenco: p.zza Sant’Antonino, presso la stazione ferroviaria, a barriera Torino, nella piazzetta di Santa Maria in Cortina, accanto al cavallo di Cassinari in piazzetta Tempio oltre che all’attuale e definitiva posizione che sbaragliò tutte le altre.
Purtroppo il progetto stava quasi per arenarsi a causa dei continui dissensi dei cittadini che toglievano entusiasmo ai promotori finché un bel giorno arrivò da oltre oceano la proposta di un individuo che voleva accollarsi tutte le spese di fusione, progetto e realizzazione.
Si trattava di Piero Mussi un piacentino emigrato negli anni ’70 in California e oggi importante punto di riferimento negli U.S.A. nel settore delle fusioni artistiche.
Una volta realizzata, l’opera fu imbarcata e attraverso il canale di Panama s’indirizzò verso il mar Mediterraneo seguendo forse rotte colombiane fino al porto di Genova.
Da quel 10 novembre 2001 il crocevia, Corso Vittorio Emanuele - via Genova, ha perso quella banalità che non lo distingueva da nessun altro quadrivio cittadino, da allora è un punto di riferimento e attrazione per cittadini e turisti.
Invito, soprattutto i dissidenti, quelli che non hanno mai apprezzato questo cantone di storia recente della nostra città, ad avvicinarsi e osservare ogni dettaglio, non solo della statua ma anche del basamento.

articolo di: Claudio Gallini

Alcuni siti consigliati:
Artworks Foundry (Piero Mussi): http://www.artworksfoundry.com


Didascalia Foto: la statua è posta a verifiche statico-dinamiche prima della posa definitiva. 
Fonte Foto: (D. PONZINI, Antonino di Piacenza, TIP.LE.CO., 2001)



martedì 26 novembre 2013

Ernesto Gelati venditore piacentino, dei tempi passati, di merce ...stagionale!

Il collage di memorie firmato da Lino Gallarati è davvero ricco di personalità piacentine che come abbiamo detto per il “Lòlu”, in un mio precedente pezzo, non andrebbero mai dimenticate.Una figura poliedrica del commercio locale, che si vuole descrivere invece ora, è quella di Ernesto Gelati, un venditore ambulante che esercitò la sua professione per tanti anni in Piemonte ma che a Piacenza, ormai decano del mestiere, aveva portato al culmine attorno agli anni cinquanta. Turinu, così era anche appellato per la sua lunga permanenza in terra sabauda, era organizzato in base alle stagioni e proponeva i suoi prodotti seguendo gli eventi del tempo. C’era il periodo dei limoni, poi la stagione dei fiammiferi, ed era facile trovarlo in piazza dei Cavalli con la sua cassettina, mentre in novembre si attrezzava efficacemente con dei barattoli pieni di crisantemi da offrire ai propri clienti. Trascorso il periodo di Santi e Morti, era invece semplice incontrarlo vicino alla chiesa di San Francesco o in via XX Settembre a vendere Lunari e Solitari che lo stesso Gallarati, tipografo, gli forniva già negli anni seguenti al secondo conflitto mondiale.
In estate invece il nostro Ernesto si cimentava nella vendita delle belle e buone angurie provenienti da San Giorgio al grido di “Taglio, taglio rosso”, oppure con il suo cesto di vimini, ben sistemato sulla bicicletta, pieno di pesci freschi strillando “bei vìv, bei vìv”!
Gelati, piacentino del sasso DOC, nacque nel quartiere di Sant’Agnese e se fosse ancora vivo sarebbe una preziosissima miniera di ricordi della Piacenza popolare di una volta, della Piacenza che nemmeno nei libri si può leggere, perché di rado vengono ricordati questi personaggi quasi folkloristici.
Chi l’ha conosciuto, come lo stesso Gallarati che ne racconta nella sua Antologia di Ricordi, lo descrive come una persona dalla memoria portentosa capace di riesumare tantissimi protagonisti della Piacenza dei tempi andati che ahimè nessun potrà più ricordare.

articolo di: Claudio Gallini

Ernesto Gelati intento alla vendita di fiori (fonte Antologia di ricordi, Lino Gallarati, p. 30)


articolo di: Claudio Gallini

lunedì 18 novembre 2013

Ma chi non ha mai letto il “Libro del Moroni”?


A chi non è mai capitato di sentirsi dire da un piacentino D.O.C. la tipica frase: “Te studiä in sal libar dal Muròn”?
Ebbene vi devo confessare che nelle mie ultime ricerche su oratori e chiese della provincia, mi è davvero capitato di prendere in mano uno dei tanti volumi scritti da Gaetano Moroni in tema di storia della Chiesa.
Anche Guido Tammi, nel suo prezioso vocabolario “Piacentino-Italiano”, edito dalla Banca di Piacenza, conferma, e nello stesso tempo smentisce, che il famoso “Libar dal Muron” tante volte citato dai nostri concittadini più anziani, potrebbe riferirsi al Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni.
L’opera si compone di centotre volumi, più altri sei volumi d’indici, scritti tra il 1840 e il 1861 dal cav. Gaetano Moroni che, oltre a esser stato uno dei più importanti bibliofili italiani, fu oltretutto il maggiordomo personale dei pontefici Pio IX e Gregorio XVI.
Il Tammi ci riporta altresì anche la possibile associazione della frase, utilizzata spesso e volentieri come uno sberleffo, con l’autore di un libro di medicina, tale Sebastiano Moroni vissuto nel XVI secolo.
La derisione che avanza questa frase piacentina è ancora più ampia in questo caso enfatizzato così: “l’ha studiä al libar da Muròn, pö al studia, pö al dveinta cuiòn” come a dire di una persona che si vanta di una grande dottrina ma altresì che alla fine non ha capito nulla di quello che ha letto.
In conclusione mi sento di appoggiare la tesi che il Muròn, cui si riferisce il nostro proverbio, è assolutamente legato alla raccolta dell’erudito Gaetano Moroni, testi fondamentali per lo studio della nostra Chiesa.

articolo di: Claudio Gallini






lunedì 11 novembre 2013

Chi era costui? Carlo Uttini, il cugino di Giuseppe Verdi e grande pedagogista italiano.


Ogni città, come la nostra Piacenza, nasconde dei piccoli particolari che spesso sono ignorati; un dettaglio inosservato, ma dal grande significato storico e culturale, è un piccolo e anonimo busto posto in una rientranza di via San Giuliano, poco prima di sfociare in via Romagnosi.
Questa scultura, a mio parere poco curata e valorizzata, delinea i tratti di una figura dalla duplice valenza per la nostra città poiché Carlo Uttini è stato, oltre che un grande pedagogista italiano, anche il cugino del maestro Giuseppe Verdi.
L’iscrizione apposta vicino al busto recita così: "A tramandare ai posteri onorata memoria del sapiente educatore canonico don Carlo Uttini per oltre cinquant’anni propugnatore indefesso della cristiana nazionale pedagogia, gli amici e ammiratori".
Nato a Saliceto il 3 maggio 1822, morto in questo istituto il 3 aprile 1902.
La storia di questa figura ci racconta che Carlo Uttini nacque a Saliceto di Cadeo; egli fu insegnante di lettere ma soprattutto di pedagogia oltre che rettore del collegio femminile di Sant’Agostino.
Le sue nuove teorie pedagogiche le poté però mettere in pratica solo nel 1867 quando aprì a Piacenza, proprio lì dove è posto oggi il busto, il “Giardino d’Infanzia” e dalle sue parole comprendiamo il significato di questa sua istituzione:
Che cosa è cotesto Giardino d’infanzia? dimandano molti. E forse taluno risponde: E’ un nome inventato per attrarre: a somiglianza delle figure smaglianti di certe botteghe […] No, il nostro Giardino d’infanzia non è nulla di questo, […] Il nostro Giardino non è asilo, e ricovero di bambini dalla carità cittadina aperto per educare i figli abbandonati dal povero…” (C. UTTINI, Il giardino d’infanzia, Piacenza, 1871.

"Il GIARDINO D'INFANZA",
Piacenza, 1871. - di
C. UTTINI
Tra i suoi scritti più importanti ricordiamo inoltre “Educhiamo!” del 1874, “Nuova compendia di pedagogia e didattica” del 1884, “L'era nuova dell'educazione in Italia” del 1851, “I primi sei anni di vita” del 1880 e tanti altri che hanno dato le basi della moderna scuola di pedagogia italiana.
Piacenza gli ha dedicato solo una strada che da via Pietro Cella si congiunge alla strada Malchioda, ma nel resto d’Italia, soprattutto nel settore pedagogico è tuttora un’istituzione tanto da far parte degli “Annali di storia dell’educazione e delle Istituzioni scolastiche”.
La figura di Carlo Uttini si meriterebbe davvero più luce e non di rimanere soltanto una scultura annerita e deteriorata oltre che trascurata.
L’appartenenza alla famiglia di Luigia Uttini, madre di Giuseppe Verdi, rappresenterebbe un forte appiglio anche per far leva sulla piacentinità del Maestro, che tutto il mondo vede appartenere però pienamente alla città di Parma.

Busto di Carlo Uttini a Piacenza
foto di: © Claudio Gallini
articolo di: Claudio Gallini


martedì 5 novembre 2013

Piacenza una città dai grandi e piccoli particolari. Piazzetta Tempio, i Templari e la famiglia nobile Marliani.


Lo spunto per questo breve articolo, l’ho avuto da un’utente del nostro gruppo Facebook Ripensando Piacenza (https://www.facebook.com/groups/ripensandopiacenza/) che chiedeva notizie in merito all’effige di un piccolo leone scolpita su un muro di un palazzo posto in piazzetta Tempio all’angolo con via San Giovanni.


il Blasone della Famiglia Marliani - fonte: Torelli p. 78


L’edificio in questione, dalla facciata molto ornata, è per gli appassionati di storia e architettura locale, il cosiddetto palazzo Marliani, o più precisamente Marliani-Anguissola, posto al n° 56 della già menzionata piazzetta.
Per i piacentini è più facile ricordare che in questa piazza è posta l’opera di Bruno Cassinari denominata “Cavallo scodato con cavaliere” e donata dall’artista alla nostra città nel 1985 o ancora meglio nominare il vicino palazzo settecentesco della Prefettura appartenuto ai nobili Scotti di Vigoleno.
Se invece si vuole approfondire la storia di quest’antico largo, dobbiamo partire dal suo nome che non lascia niente al caso, poiché proprio dove oggi troneggia l’opera del Cassinari, i monaci cavalieri dell’ordine dei Templari costruirono, attorno al XII secolo, il loro centro di culto.
Con alterne vicende che portarono il tempio a essere distrutto e ricostruito per diverse volte, durante la seconda guerra mondiale fu completamente raso al suolo e oggi rimane solo il toponimo di via e Piazzetta Tempio a ricordarci che Piacenza fu un punto strategico per i pellegrini diretti in Terra Santa.
Ma tornando al simbolo scolpito sul palazzo Marliani, non possiamo che ricondurre quel leone al blasone della nobile famiglia di origini milanesi e stabilitasi a Piacenza nella seconda metà del XV secolo.

il Blasone dei Marliani, scolpito sulla facciata
di Palazzo Marliani-Anguissola - © Claudio Gallini


Il proprietario di quel bel palazzo, ancora oggi apprezzabile al n° 56 di piazzetta Tempio come si scriveva all'attacco di questo pezzo, fu un tale Giovanni Marliani che oltretutto acquistò terreni nei pressi di Pittolo dove ancora oggi esiste la località “La Marliana”.
Questa famiglia diede a Piacenza vescovi, arcipreti, giuristi, dottori e giudici; i Marliani giunsero a Piacenza già nobili conquistando, per la loro particolare agiatezza, l’appartenenza ai collegi più importanti della città seppur la loro discendenza si estinse attorno al 1700.
 

Claudio Gallini

Palazzo Marliani Anguissola - © Claudio Gallini

martedì 24 settembre 2013

Quando Piacenza era imitata in Europa...

Quarant'anni fa, quando le banche non erano ancora diventate semplici strumenti in mano a potenti politici o finanziari, ma esercitavano la loro vera attività di mercato. Nell'europa, che ancora si avviava verso speranze crollate poi nella crisi degli ultimi anni; alcuni illuminati banchieri, decisero di dare vita a una forma nuova di collaborazione internazionale che avrebbe dovuto facilitare e accelerare le diverse transazioni fra i loro istituti. Fu così, che agli albori degli anni 70, il "Banco di Roma" per l'Italia, la "Commerzbank" per la Germania e il "Credit Lyonnais" per la Francia, avviarono accordi di cooperazione che, fra l'altro, oltre all'indubbio successo dell'iniziativa, valse alle tre banche il prestigioso premio della Comunita Europea "Carlo Magno". Oggi, purtroppo, il "Banco di Roma" non esiste più, vittima di sporche mene politiche e finanziarie (di cui il pregiudicato Geronzi è stato uno degli ultimi attori) e le banche, in gran parte, soprattutto le maggiori, hanno confinato la loro capacità e intelligenza operativa, se tutto va bene, nei servizi Bancomat...
Un ricordo della positiva esperienza vissuta negli anni passati, si può tuttavia trovare, fra le altre testimonianze di rilievo, fra le pagine della rendicontazione di bilancio del 1972 del "Credit Lyonnais" di Parigi, il quale, per illustrare i risultati delle attività di collaborazione tra le banche, pensò di raffigurare in un unico "Palazzo ideale", tre immagini reali di altrettanti sedi delle banche stesse. E, per quanto concerneva l'Italia, fu scelta proprio la fotografia del palazzo ove aveva sede
la filiale di Piacenza del "Banco di Roma", l'antica casa della associazione dei Notai piacentini, il cui simbolo figura tuttora sul palazzo sito in Piazza Cavalli (due mani che si stringono a simboleggiare la fiducia reciproca nei patti sottoscritti), successivamente il Palazzo piacentino, fu sede anche della "Banca Popolare Piacentina".  Questa costruzione, ebbe così la ventura di rappresentare il nostro paese un po' in tutto il mondo (anche se furono pochi coloro che se ne resero davvero conto).

 Sede del Credit Lyonnais a Parigi
 Sede del Banco di Roma a Piacenza
 Simbolo dell'associazione dei Notai,
posto sulla sede dell'ex "Banco di Roma"
in Piazza Cavalli
Simbolo della città di Piacenza,
posto sulla sede dell'ex "Banco di Roma"
in Piazza Cavalli

mercoledì 4 settembre 2013

Luigi Gerra - Al Lolu ad Turzèla

La storia lontana e vicina di Piacenza racconta anche di personaggi folkloristici che hanno lasciato segni indelebili nella nostra città.
Queste persone il più delle volte non hanno contribuito in modo particolare a scrivere vicnde rilevanti o di merito, ma piuttosto sono ricordate per vicende di miseria e di disagio. Il blog “Ripensando Piacenza” vuole, con queste righe, iniziare una serie di racconti sui personaggi popolareschi piacentini che probabilmente in vita hanno contat poco o niente ma che ora meritano luce.Una di queste figure, forse più di tutte, è certamente Luigi Gerra, nato a Piacenza sul finire del 1800 e noto frequentatore del sobborgo di Torricella, a due passi dall’attuale piazzale Roma.
E’ curioso rilevare che il suo soprannome sopravvive tuttora grazie al nostro vernacolo molto espressivo e si apprende, dall’Antologia di ricordi scritta da Lino Gallarati, che “Al Lolu ad Turzèla”, questo era il suo nomignolo, rivive ancora ai giorni nostri quando vogliamo invitare un amico a non fare lo stupido dicendogli: “Fa mia al Lolu!”. Rileviamo, sempre da Gallarati, che il “Lolu” non aveva dimora fissa ed era cresciuto nella massima povertà, nell’analfabetismo e frequentava proprio il quartiere più malfamato di allora a Piacenza, il cantone di Torricella, ove erano poste tra l’altro le forche per i condannati a morte. Luigi era anche appellato Gigìn e questo vezzeggiativo era forse improprio, data la sua forza eccezionale sfruttata nel solo lavoro che sapeva fare, il facchino. La sua grande forza fisica si scontrava con un accentuato analfabetismo aggravato anche da problemi psichici; si racconta che rifiutasse essere pagato con una moneta da 5 lire d’argento poiché avere tra le mani cinque pezzi da una lira o tantissime monetine da dieci centesimi, lo appagava maggiormente nel suo lavoro.Nella sua ignoranza era inconcepibile che una sola moneta valesse più di cinque o addirittura di dieci o più tintinnanti soldi.
Il “Lolu” era preso di mira dai frequentatori dell’Osteria del Bambèn di Porta San Lazzaro che, prendendolo in giro, gli facevano consegnare pesanti carichi presso finte destinazioni causandogli continue arrabbiature, smorzate poi da qualche centesimo e un bicchiere di vino.
Egli, sopravvissuto alla peste spagnola, morì all’età di settant’anni circa nella completa solitudine ed emarginazione e ancora oggi, passando nei pressi della stazione ferroviaria, possiamo immaginarcelo a discutere sul fatto che, a suo parere, un quintale pesasse meno di novanta chili perché un numero con due cifre.

articolo di: Claudio Gallini



Luigi Gerra
(Al Lolu ad  Turzèla)

venerdì 2 agosto 2013

Ripensando Piacenza, seguiteci su Facebook!

iscrivetevi al gruppo su Facebook di Ripensando Piacenza. Troverete foto della vecchia Piacenza e della sua provincia, curiosità sulla nostra città, sulle nostre tradizioni enogastronomiche, sulla nostra storia che, non deve e non può essere dimenticata,  ma dovrà essere preservata e divulgata anche per le future generazioni!

Ripensando Piacenza su facebook


lunedì 8 luglio 2013

detti piacentini

#RipensandoPiacenza ‎#Piacenza ‎#ProfessorParaboschi ‎#Dialetto ‎#dialettoPiacentino ‎#PiacenzaNelCuore

piccoli aneddoti sul nostro amato dialetto raccontati con gran simpatia e precisione  dal professor Paraboschi
Vi consiglio di ascoltarlo e, se volete, diffondetelo. Il contenuto del video, è davvero bello!



lunedì 29 aprile 2013

I fortini ottocenteschi a Piacenza

La storia locale ci tramanda che il Ducato di Parma e Piacenza passò sotto il controllo
austriaco in concomitanza del trattato di Vienna (18 novembre 1738) che sancì tra l’altro la
fine dell’epoca napoleonica per far posto all’altissima Maria Luigia d’Asburgo.
Leggendo gli stessi atti dell’epoca, conservati negli archivi locali, si può rilevare che gli
stessi ordinavano la presenza fissa di una guarnigione austriaca presso la nostra città,
perché giudicata una zona strategica ai fini militari.
Il primo obiettivo delle truppe austriache fu quello di rimaneggiare il sistema difensivo
locale che constava delle sole mura farnesiane, tra l’altro in pessime condizioni; cosicché
si valutò di creare dei nuovi avamposti in grado di migliorare le tattiche difensive delle
milizie asburgiche.
A distanza di poco meno di due chilometri dalle stesse mura cittadine furono quindi
edificati dei fortilizi che potessero controllare le principali vie di accesso alla città.
Lungo le vie Emilia, rispettivamente a Sant’Antonio e San Lazzaro, a nord vicino a San
Rocco al porto e anche nei pressi delle strade che portano in val Trebbia e val Nure,
proprio dove oggi sorge il Parco della Galleana, furono costruiti dei fortini militari.
Lo storico locale A. Siboni, in un articolo apparso su Libertà nel ’79, racconta che questi
castrum erano formati da fossati e rialzi con attorno dei muri in mattoni in grado di
conservare munizioni e cibo nel caso di lunghe permanenze al loro interno.
E poi aggiunge che “tra un forte e l’altro, in posizione più arretrata, venivano le ridotte,
fatte di semplici rilevati di terra, piazzati in luoghi ritenuti più adatti alla difesa”.
Le vecchie mura, come scritto in precedenza, furono restaurate e in corrispondenza delle
porte furono eretti nuovi torrioni di cui rimane traccia oggi sia a Porta Borghetto sia a Porta
Fodesta.
Il primo fortino a essere stato eretto fu quello di San Lazzaro esattamente nel 1852.
Il fortino della Galleana fu invece edificato nel febbraio del 1859.
Con l’unità d’Italia e l’annessione della nostra terra al Piemonte, queste opere difensive
furono rivalutate e migliorate grazie a militari, progettisti e ingegneri quali il generale
Manfredo Fanti e il progettista militare ing. Luigi Federico Menabrea.
Proprio quest’ultimo, giunto a Piacenza nel 1860, progettò un campo trincerato sulla falsa
riga di quanto fece già a Bologna l’anno prima; la muraglia urbana fu congiunta al Po con
due trinceramenti, e furono restaurati tutti i fortini austriaci già presenti compreso quello
ancora oggi collocato all’interno del parco di via Manfredi.
In questo periodo storico Piacenza, intesa come piazzaforte, non aveva nulla da invidiare
alle vicine Genova, Bologna, Pavia e Alessandria.
Di questa grande serie di avamposti militari oggi ne rimangono ben poche tracce poiché
nel 1903 un decreto sancì l’abolizione delle servitù militari a Piacenza decretando il
decadimento delle stesse.
Quello che oggi troviamo attorniato da vegetazione all’interno del Parco della Galleana,
si meriterebbe più attenzione per rivalutare la nostra storia, il nostro contributo all’unità
d’Italia passato anche attraverso quei muri.

Claudio Gallini


Fonte: raccolta iconografica Biblioteca Comunale di Piacenza

giovedì 18 aprile 2013

La Chiesa di San Lorenzo - l'ennesimo tesoro, privato ai piacentini

Come già evidenziato più volte in questo blog, la città di Piacenza vive situazioni assolutamente paradossali.
Spesso, noi piacentini, lamentiamo il fatto che la nostra città abbia ben poco da offrire in termini turistici e culturali; su questa affermazione, non mi sono mai trovato molto concorde, in quanto ritengo che per storia e monumenti, Piacenza possa offrire contenuti culturali equivalenti ad alcune realtà ben più blasonate della nostra.
Inoltre, noi piacentini, ci "permettiamo" di lasciare marcire testimonianze artistiche di assoluto pregio. Gli esempi, in questo caso si sprecano: La Chiesa e il convento di Santagostino, Il convento di Santa Chiara sullo stradone Farnese, la Chiesa e l'anneso chiostro del Carmine in via Borghetto. Inoltre, anche se spesso viene ignorata, voglio ricordare la bellissima chiesa San Lorenzo e il suo monastero (purtroppo oggi scomparso). Queste strutture, furono edificate nel 1333, per volontà dei padri carmelitani. La chiesa, piuttosto grezza nella sua facciata, internamente, regala uno spettacolo maestoso, costituito da forme gotiche e preziose decorazioni scultoree in stile barocco. Purtroppo, furono coperti d'intonaco gli antichi affreschi trecenteschi e quattrocenteschi. Fortunatamente, i mesesimi, furono recentemente scoperti, strappati e posti all'interno dei musei civici di Palazzo Farnese.
La maggiorparte delle opere d'arte, contenute in San Lorenzo, andarono disperse in seguito alla soppressione della chiesa nel 1810.  In seguito, il tempio fu adibito come stalla e come magazzino militare.
Dove, attualmente sorge "Palazzo madama", la dimora voluta da Margherita D'Austria, vi erano dei porticati e delle botteghe, in cui si svolgevano le fiere dei cambi fino al 1660. Queste botteghe, furono trasferite a fianco di Palazzo Farnese.
Come detto, questa chiesa ha dovuto subire nei secolo pesantissimi sfregi. Ritengo tristissimo che, ancora ai nostri giorni, quest'edificio debba continuare ad essere ignorato e dimenticato dai nostri amministratori attuali e passati!
Massimo Mazzoni








testi e foto, sono tratti dalla pubblicazione di Giorgio Fiori, "Il centro storico di Piacenza" edito dalla casa editrice T.E.P. di Piacenza

mercoledì 10 aprile 2013

La nobile famiglia Dattari in una lapide in San Sisto

Una chiesa piacentina che non ha bisogno di speciali presentazioni è certamente quella di San Sisto poiché oltre a essere molto conosciuta da tutti i cittadini, è anche famosa in tutto il mondo per aver custodito al suo interno il famoso dipinto “La Madonna Sistina” di Raffaello per quasi duecento anni.
Personalmente lo reputo uno dei più importanti templi della città, non soltanto per le sue ricchezze artistiche e architettoniche, ma sicuramente per le sue origini: una chiesa voluta, attorno all’anno 874, dalla regina Angilberga d’Alsazia moglie dell’imperatore Lodovico il Pio. Quest’analisi non vuole raccontare nulla di più di quanto si conosca su questo tempio, ma piuttosto vuole provare a esporre la storia di una piccola lapide posta sul pavimento all’ingresso della chiesa, che solitamente è coperta da un tappeto.
Era tanto che non entravo in San Sisto e un sabato pomeriggio trovandomi nelle vicinanze di piazza Cittadella, sentii un forte desiderio di ritornare in quella chiesa, certo che questa volta l’avrei trovata aperta.
Quel giorno la fortuna mi aiutò davvero molto e finalmente riuscii ad ammirare nuovamente da vicino le pregevoli bellezze di San Sisto; la chiesa era completamente vuota e buia, mi pareva in quel silenzio di sentire addirittura i canti dei monaci.
La suggestione passò all’istante quando, nell’uscire, notai sotto a uno zerbino posto all’ingresso la porzione di una piccola lapide; non ci pensai troppo e con una mano spostai il tappeto e con la macchina fotografica feci qualche scatto con la promessa, una volta a casa, di documentarmi maggiormente.
La fortuna dello “studioso faidate moderno” è quella di avere a disposizione uno strumento come internet che, grazie a delle ricerche mirate, è possibile risparmiare molto tempo e trovare le fonti adatte alla propria ricerca, ma questa volta ahimè non funzionò. Anche i libri a disposizione nella mia piccola biblioteca, non facevano cenno a questa lapide e così non rimaneva altro che affrontare lo studio attraverso un ragionamento più diretto; anche il parroco non aveva alcuna notizia in merito.
Il primo passo fu di decifrare il testo inciso sulla stessa che, nonostante presentasse una crepa nel mezzo e numerose macchie, riportava un’iscrizione quasi leggibile benché le numerose
abbreviature latine potessero trarmi in inganno. E’ stato chiaro fin da subito che la lapide faceva riferimento alla nobile famiglia piacentina Dattari, che in San Sisto scelse, insieme con altri casati più o meno importanti del patriziato locale, di lasciare segno di sé nella nostra preziosa storia locale.
Per conoscere meglio questa famiglia dovetti affidarmi al pregiatissimo volume di Giorgio Fiori, Le antiche famiglie di Piacenza, dove scoprii che i Dattari, già nel 1500, vantavano diversi membri appartenenti al Consiglio Generale dei Landi.
Nel 1465 trovai un tale Francesco Dattari, appartenente all’Anzianato Piacentino, ma lo scrivente non crede possa essere il “FRAN DATTARI” indicato nella lapide oggetto di questo studio per una discordanza di date; la lastra seppur rovinata dal calpestio, ricorda l’anno della morte del Dattari presumibilmente nel 1525-1526. Dal Francesco prima menzionato nacquero Lazzaro, professore di medicina, e Bartolomeo pretore di Bobbio nel 1514 e castellano di Piacenza con tanto di nomina ricevuta da papa Leone X.
Lazzaro Dattari, che sposò la nobile Caterina del Cario, ebbe Francesco che presumibilmente potrebbe essere il nobile citato nella tanto misteriosa lapide, che si meriterebbe davvero d’essere ben visibile come tante altre presenti all’interno della nostra rinomata basilica. Dalla cronistoria di questa famiglia, troviamo poi un altro Francesco Dattari, nipote dell’omonimo prima nominato, figlio di Bartolomeo.Dalla stessa lapide, visibile dalla foto allegata, è possibile farsi anche un’idea dello stemma di famiglia che seppur logorato dal calpestio, regala qualche segno di decorazione sui lati e del motto del casato; la lapide pare esser stata posata secondo la volontà del figlio di Francesco, un tale Bartolomeo. Lo scrivente vuole invitare chiunque avesse notizie maggiori su questa famiglia e in particolar modo sulla figura di Francesco Dattari a inviare al blog integrazioni o eventuali precisazioni.
 
autore testo e foto: Claudio Gallini

San Sisto - la lapide della famiglia Dattari - ® Claudio Gallini

giovedì 4 aprile 2013

Ripensando Piacenza è anche su Facebook

Unitevi
al nostro gruppo su Facebook!!!  

 
Ripensando Piacenza è anche su Facebook, un mezzo forse più immediato e interattivo rispetto al classico Blog.  Chi volesse contribuire, con le proprie foto recenti o antiche di città e della provincia; Chi avesse delle idee da discutere fra noi cittadini, delle critiche da segnalare su dei malfunzionamenti a Piacenza o in provincia, le può documentare sulla pagina del gruppo, con testi e con foto.
"Il gruppo", come del resto il blog "Ripensando Piacenza", è totalmente apolitico.
UNICA POSTILLA:  Chi fosse interessato a iscriversi al gruppo con intenti propagandistici, è pregato di non iscriversi!!!
Per il resto, Siete tutti invitati!
Massimo Mazzoni

martedì 26 marzo 2013

PIACENZA: la piena del Po nel 1908



"Ottobre 1907, via Mazzini - L'anta di un portone come zattera, due paletti, racattati in un orto vicino, come remi: così due volenterosi tentano di portare un po' di viveri (che immaginiamo nella sporta di paglia al sicuro sulla sedia al centro dell'improvvisato natante) ai molti abitanti imprigionati nelle case assediate dall'acqua del Po. L'emergenza durò parecchi giorni.
Già il 21 ottobre, la "Libertà" uscì con un titolo drammatico: "Infuria il tempo, uragani, inondazioni, disastri". il 26 veniva spazzato via l'argine detto "Berlinone" a nord del tiro a segno: l'acqua invadeva i binari della ferrovia per Voghera.
il casello ferroviario n. 78, venne semisommerso e il casellante, che dormiva con tutta la faiglia, venne svegliato in tempo. Tutti si miseroin salvo. Appena dopo, il Po, crescendo, dilaga nei quartieri della città bassa.
Alle 10 del 28 ottobre, l'idrometro segnò un colmo di piena di m. 8,76
."

testo e foto, tratti da: "La nostra terra in dieci anni (1988-1997) di Bilanci della Banca di Piacenza"

lunedì 11 marzo 2013

lettera di un cittadino, al Sindaco Paolo Dosi

Pubblico un'interessante lettera, scritta dal Dott. Emilio Borghini, rivolta al "nostro" Sindaco Paolo Dosi, in merito alle problematiche legate al traffico veicolare nella nostra città. Purtroppo, tale lettera, non ha ancora ricevuto nessuna risposta da parte di Dosi o di qualche componente della giunta comunale.

Caro signor Sindaco,
 Chissà quante volte le sarà capitato di attraversare, da semplice cittadino, una “trafficata” via di Piacenza.  Avrà sicuramente notato  che i poveri pedoni, pur avendo la precedenza sulle famose “strisce”, sono invece obbligati a cedere il passo ai mezzi motorizzati, pena l’esser travolti o, nella migliore delle ipotesi, “schivati in extremis”.
Da disciplinato automobilista le posso infatti testimoniare i molteplici cenni di ringraziamento che ricevo dai pedoni quando li lascio passare. Le sembra una cosa normale? Questa quotidiana esperienza è solo un pallido esempio dell’intollerabile degrado viario raggiunto dalla nostra città ove l’assenza di controlli,  la certezza dell’impunità e il cattivo esempio ha ormai trasformato le strade (un bene comune!) in entità abbandonate  all’indisciplina, all’illegalità e perfino alla criminalità. Come mai, a differenza delle  altre città, i vigili urbani  sono misteriosamente “evaporati”  dalle nostre strade? Non  è un problema di poco conto, visto che questa lacuna coinvolge l’integrità fisica di tutti i piacentini. Quali problemi sono alla base di questa scomparsa? Sono scarsi gli effettivi? Non sembrerebbe, visto che gli agenti ricompaiono d’incanto per le manifestazioni sportive (“maratona”)   per dileguarsi appena la gara è terminata. C’è una strutturale impreparazione ad affrontare un traffico sempre più caotico e indisciplinato? Vediamo di addestrarli. Sono troppe le pratiche burocratiche? Cerchiamo di snellire le inutili procedure come avviene in altre città ( non credo che quelle amministrazioni siano costituite da superuomini). Per tentare di risolvere il problema dobbiamo partire dal confronto con le altre città, esaminando il numero degli effettivi, le quotidiane incombenze e soprattutto le spese sostenute. In un’epoca di “vacche magre” è infatti estremamente importante valutare  il rapporto tra i costi e i reali benefici. La funzione dei vigili urbani non può infatti esaurirsi nei controlli all’ ingresso e all’uscita dalle scuole e neppure nei rilievi relativi agli incidenti (anziché alla loro prevenzione), incombenze che possono essere delegate rispettivamente ai volontari e alle forze di sicurezza. Se ci si limita a queste attività, le quotidiane e multiformi infrazioni che, grazie a una  sicura impunità, vengono considerate ormai pressoché normali, attenteranno sempre più alla pubblica  incolumità,  rendendo necessaria la drastica riduzione di un corpo rivelatosi ormai drammaticamente ed economicamente inutile,  come  è inutile, ridicolo e ipocrita quello slogan che definisce Piacenza “ città in difesa dei bambini”, quando invece quei poveri piccoli vengono esposti, con  genitori e nonni, ai quotidiani pericoli del traffico. Ho citato la mancata precedenza sulle “strisce” perché è la prima infrazione che mi sia venuta in mente, ma sono infinite le illegalità  che si perpetuano giornalmente grazie alla fertile fantasia di abituali e occasionali utenti pronti ad avvalersi della colpevole incapacità repressiva di chi dovrebbe esercitarla. Al primo posto per quanto riguarda la pericolosità è, ovviamente, la velocità dei mezzi  che, specie nelle ore serali, si cimentano in spericolate prestazioni  degne dell’autodromo di Monza. Basterebbe  disporre, specie nei tratti rettilinei e di scorrimento ( vedi via Manfredi, via Dante et similia), e “a monte” delle “strisce” pedonali,  alcuni “dossi artificiali”  che vanifichino le velleità narcisistiche ed   esibizioniste di quei conducenti. L’articolo più bistrattato del codice stradale rimane  comunque il povero 158, che si vede quotidianamente stuprato da parcheggi sugli incroci, su passi carrai, su strisce pedonali, (ad esempio al numero 12 di Via Genova),  da ingombri alle fermate degli autobus, da intralci alle corsie ciclabili,  da ostacoli  per soste in doppia o terza fila, da abusi sulle aree riservate a farmacie e handicappati e perfino nel bel mezzo delle carreggiate o in qualunque altra sede che solo fervide fantasie trasgressive possono escogitare. Al terzo posto vengono le telefonate. Gli stessi individui che in ogni momento della giornata ( e della notte) sono intenti ad armeggiare col telefonino, non cambiano certamente abitudine al volante, in bicicletta o alla guida di autocarri e perfino di autobus pubblici, col risultato di possibili, immaginabili e talora terribili conseguenze  ( quasi nessuno ha il “vivavoce”). Al quarto posto vanno ricordati  i ciclisti senza luce ( praticamente tutti!): li vediamo sbucare improvvisamente dal buio sfrecciando in qualunque punto della strada,  in omaggio a ingiustificate indulgenze che li espongono a gravissimi e scriteriati pericoli in nome di una falsa e “democratica” tolleranza. Alle violazioni del codice vanno poi aggiunte le dissennate e pericolose normative comunali varate negli ultimi anni  e tese ( non se ne sentiva certo il bisogno) ad  accrescere le occasioni di rischio. Le sembra giusto caro signor Sindaco che i ciclisti possano transitare in senso vietato anche in situazioni d’indiscusso pericolo? Mi è capitato  di trovarmene contromano addirittura in Via Manfredi, cioè in una battutissima via di scorrimento e a doppia corsia. E la patologica trovata ( dico “patologica” perché sembra scaturita da una mente malata) di delimitare le aree di sosta in Viale Dante a soli metri 2,5 ( o poco più) dagli incroci, mentre il codice della strada prescrive ben 5 metri? ( anche in questo caso è implicato l’articolo  158: ci sarà pure una ragione se lo esige il codice!). Ne so qualcosa quando devo immettermi in quella via con la visuale impedita dalle auto in sosta! Si tratta di misure che, rendendo oltremodo pericolosa la circolazione, dimostrano il sostanziale disprezzo delle autorità nei confronti dell’integrità fisica dei cittadini, divenuti potenziali vittime innocenti. Alle illegalità e alle stolte normative va infine aggiunta, dulcis in fundo, la carente manutenzione delle infrastrutture: dalla mancata sostituzione di segnali divelti e tristemente giacenti per mesi sulle aiuole, alle strutture in plastica che dovrebbero delimitare i parcheggi sradicate e abbandonate per anni ( come in zona “campo sportivo vecchio”), alle righe annosamente illeggibili a delimitare certi parcheggi ( come all’incrocio tra via Genova e via Cerri)  ai cartelli stinti, ai semafori inclinati da vecchie collisioni e mai raddrizzati… eccetera eccetera… 
Concludendo: dopo questo (molto parziale)  elenco  di negligenze e assurdità mi pare  giusto porre l’accento sull’attuale e assoluta mancanza di prevenzione. Come accade per le malattie, anche in questo caso si può intervenire sulle cause  o limitarsi a “tamponare” gli effetti. Fin’ora è stato adottato solo il secondo metodo,   ma si tratta di una “terapia” che esclude ogni prevenzione. Sebbene le cause siano chiarissime e le sanzioni non manchino, i  deludenti risultati sono purtroppo evidenti. Eppure quelle multe, “farmaci”, efficaci  anche in piccola quantità  ma assolutamente decisivi alle amarissime “dosi urto” del Codice della Strada, avrebbero effetti benefici anche  per il comune. Solo in tal modo si potrebbero prevenire tanti incidenti e relative vittime: non ci si può infatti limitare a soccorrere  feriti e a rimuovere cadaveri perché si rischia di sostituire  alla “clinica” la “medicina legale”, disciplina unicamente volta ad accertare le cause dei decessi. Lei mi dirà: è vero, la situazione è talmente deteriorata da non poter essere risolta da un giorno all’altro. D’accordo, lei non c’entra, il disastro l’ha ereditato. Ma ora è venuto il suo turno e  fra un anno, se la situazione sarà immutata o addirittura peggiorata, sarà lei a sedere sul “banco degli imputati” allestito dall’opinione pubblica piacentina. Io non la conosco personalmente, caro signor Sindaco, ma so che lei è persona onesta e sensibile, di una mitezza che le fa onore. Io ho una grande ammirazione per le persone miti, ma so che, come abbiamo visto a proposito del Santo Padre, rischiano di essere soventi vittime dei “lupi”, perché la bontà può rendere succubi dei collaboratori.
Situazioni simili a quella in esame non sembrano infatti del tutto casuali, perché ciò che richiede impegno e sacrificio, come l’uscire in pattuglia a tutte le ore e a tutte le stagioni,  può essere molto faticoso, ed è umano preferire il calduccio dell’ufficio. Ma si ricordi che la responsabilità morale, lungi da ricadere  sui sottoposti,  sarà invece   tutta sua e lei, per difenderla, dovrà forse “battere i pugni sul tavolo”. Le faccio pertanto i migliori auguri  anche perché  a me, umile peccatore come tutti, torna spesso alla mente quella mano che Padre Cristoforo agitò sul capo di Don Rodrigo mentre pronunciava la celebre frase. Quella simbolica mano viene da sempre agitata sul capo di ognuno di noi e quel “Verrà un giorno!...  è destinato a risuonare nelle nostre coscienze in modo tanto più imperioso  quanto più importante sarà stato il nostro ruolo.

                                                                                                            Dott. Emilio Borghini 

mercoledì 30 gennaio 2013

un "tuffo nel passato": Corso Garibaldi

 Corso Garibaldi (ex "Strada del guasto")

In questa foto, scattata alla fine del 1800, è ripreso l'ex Palazzo delle Poste, Telegrafi e Telefoni.
Al suo posto, attualmente, trova posto il Palazzo della Provincia, costruito fra il 1912 e il 1913, dall'architetto Manfredo Manfredi
fonte: "la nostra terra in dieci anni di bilanci della Banca di Piacenza" (1988-1897)

domenica 6 gennaio 2013

arrivederci TUXEDO!

il 6/01/2013 alle 5:00 am, le lanterne poste di fronte al Tuxedo, il mitico locale di Via Trebbiola si sono spente definitivamente; le saracinesche del locale si sono abbassate e, chissà, se mai si risolleveranno per ospitare qualche altra attività commerciale. Attenzione però, il TUXEDO non ha terminato la propria "vita", ha semplicemente scelto una soluzione sofferta ma divenuta obbligata; ovvero, spostarsi di un paio di km e, più precisamente, in Via Colombo in prossimità del cavalcavia dove prima vi era collocato il negozio della "Lotto". Della sopravvivenza del locale, non posso che esserne felice ma, il perdere un altro "pezzo" della vecchia Piacenza, non può che rattristarmi. Vi sono tante ragioni, che possono spingere un commerciante a spostare la propria attività da una sede all'altra. Quelle, però, che hanno spinto i gestori del locale di via Trebbiola ad abbandonare la storica sede, mi fanno a dir poco incazzare! Abito in centro storico, amo pazzamente questa città ma, non posso che detestarne l'ottusità di tanti suoi abitanti e la gestione imbarazzante di tutti gli amministratori comunali che, in questi decenni l'hanno governata. Si parla di far "rivivere" un centro storico agonizzante, di renderlo più sicuro e sempre maggiormente vivibile. E cosa si fa, per attuare questa sempre più complessa operazione? Si decide di bloccare prima "l'IRISH PUB" e, dopo nemmeno due anni di distanza, si ostacola in tutti i modi un altro storico locale; il più vecchio, uno degli ultimi baluardi del centro storico, il TUXEDO. Nessuno, ha in verità obbligato il gestore "carlo Dodi" a chiudere i battenti; Lo hanno semplicemente portato velocemente a questa triste scelta, attraverso estenuanti e sempre più costanti controlli della polizia municipale. Mi rivolgo a tutti nostri politici e, in particolare, al sindaco "buono" Palo Dosi: ma come pensate di rendere il nostro centro storico più "vivo" e sicuro? ritenete che, renderlo sempre più deserto sia la strada corretta per raggiungere questo scopo? Purtroppo, tutti voi, vi riempite di belle parole solo durante il periodo elettorale ma, in verità, le cose a voi vanno bene così! Ringrazio Carlo e Loretta, per aver continuato la storia del TUXEDO per altri 12 anni e aver contribuito nel farne il più longevo ritrovo della città. Un luogo che, come nessun altro, ha saputo far convivere al suo interno tante generazioni e tipi differenti di persone. il Carlo, continuerà a spillare le sue birre, le migliori di Piacenza! Purtroppo, però, lo farà fuori dal centro storico della città, diventato ormai un luogo troppo ostico e con troppi vincoli per chiunque voglia intraprendervi un'attività commerciale! (Massimo Mazzoni)