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giovedì 29 giugno 2017

C’era una volta a Piacenza… Gli antichi ducati di Parma, Piacenza e Guastalla (prima parte)

a cura di 
Claudio Gallini


Introduzione


Sfogliando l’antico “Dizionario corografico dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla”, pubblicato nel 1854 dal professor Gaetano Buttafuoco (Piacenza 1804 - Parma 1883), scopriamo interessanti informazioni statistiche riguardanti il nostro territorio, a metà del sec. XIX.

Ci troviamo in pieno periodo preunitario, da pochi anni era mancata la benvoluta Maria Luigia d’Austria (1847) e, nel susseguirsi di poteri, la nostra Piacenza assieme a Parma formava uno Stato governato, all'epoca della pubblicazione, nuovamente dai Borbone.

Lo Stato di allora si divideva in tre parti, o meglio in tre Ducati: Parma, con 57 comuni, dove vi era la capitale e dove abitava anche il Sovrano, Piacenza con 45 comuni (oggi ne contiamo 48) e Guastalla con soltanto 3 municipi.

Analizziamo ora dalla mano del prof. Buttafuoco qualche dato statistico e informativo legato alla nostra città di allora.

Queste informazioni, teniamo a precisare, ci giungono dal secondo tomo dell’opera prima citata e pubblicata nella seconda metà del sec. XIX.


Il clima


Il professore descrive il clima delle nostre terre come temperato, con aria salubre tranne lungo le rive del Po dove “l’atmosfera è impregnata di vapori perniciosi alla salute”; nonostante allora le ciminiere della centrale elettrica e del termovalorizzatore non erano presenti, si respirava già, lungo il nostro fiume, un’aria alquanto insalubre.

(Immagine tratta dal volume "Dizionario corografico dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla")


La descrizione prosegue citando l'immancabile nebbia che regnava sovrana in autunno e in inverno, mentre sui monti più alti del nostro Appennino, la neve scendeva già a settembre.



La popolazione di Piacenza


Apprendiamo qualche dato dai censimenti sulla popolazione della città di Piacenza nel sec. XIX e lo paragoniamo, a titolo di curiosità, con gli ultimi dati forniti dall’ISTAT.

Anno          Popolazione

1814           27.429

1839           28.662

1843           29.766

1849           29.898

2016           102.181

A titolo informativo, a Parma, negli stessi anni, la popolazione era maggiore del 30% rispetto a Piacenza, mentre oggi il divario si aggira sul 90%.



Descrizione generale del territorio di Piacenza



La nostra città viene comunque descritta come grande, con la propria sede vescovile (al tempo Bobbio era diocesi a sé seppur posta all’interno del Ducato), con la residenza del Tribunale d’Appello dei Ducati e con due preture (una posta a nord e l’altra a sud).

Buttafuoco prosegue facendo ancora riferimento alle nebbie provocate dal vicino fiume Po che avrebbero reso l’aria “grave”, mentre elogia la nostra terra in quanto “ubertosa”, ovverosia molto fertile.

(Immagine tratta dal volume "Dizionario corografico dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla")


Lo scrittore piacentino, forse un po’ di parte, tiene a sottolineare che Piacenza è considerata una delle piazze più forti dell’Italia settentrionale con la sua forma oblunga, le mura che la proteggono, il castello con cinque bastioni e dotata di moderne opere di fortificazione.

Non sono tralasciate, in questa sintetica esposizione anche le nostre chiese definite pregiate per architettura e per le preziosità poste al loro interno, tra le quali vengono annoverate: il Duomo, Santa Maria di Campagna, S. Sisto. S. Francesco, S. Savino e S. Vincenzo e le già allora soppresse S. Agostino e Benedettine.

L’elenco degli edifici autorevoli prosegue con il Palazzo del Comune, quello del Governo, Palazzo della Cittadella (oggi Palazzo Farnese), Palazzo di Giustizia e il Teatro Nuovo.

L’autore poi elenca i centri principali del territorio piacentino quali, in ordine alfabetico: Bettola, Borgonovo, Caorso, Castel San Giovanni, Pianello, Ponte dell’Olio, Pontenure e Rivergaro.

Località quali: Alseno, Castell’Arquato, Cortemaggiore, Fiorenzuola, Lugagnano, Monticelli, per citarne alcune, dipendevano, dal punto di vista amministrativo, dal distretto di Borgo San Donnino, oggi conosciuta come Fidenza (PR).

A Piacenza, come già anticipato, aveva sede la diocesi locale con ben 362 parrocchie, ma in territorio piacentino era altresì collocata la diocesi “estera” di Bobbio con 8 parrocchie.


Produzione


Il racconto prosegue con l’elenco di tutti i frutti animali e vegetali prodotti e lavorati quali il grano, definito “strabocchevolmente copioso”, viti e frutti in genere, ortaggi, bestiame, pollame, la pesca in Po “affittata per conto del governo”, mentre era libera quella nel Trebbia e nel Nure, selvaggina, apicoltura, la lavorazione dei bachi da seta seppur con “trascuratezza” ed infine viene citata la famosa e grande miniera di ferro e quella più piccola di rame poste a Ferriere in alta val Nure.



Arti e commercio


A quei tempi Piacenza era già un importante centro agricolo che, a detta del prof. Buttafuoco, aveva fatto notevoli progressi grazie al buon governo e alla divisione equa dei tributi; egli stimava addirittura la rendita media delle produzioni rurali, al netto del 4%.

Oltre all’agricoltura nella Piacenza di metà Ottocento troviamo delle cartiere, delle conce per il cuoio ma a quei tempi la nostra città era famosa soprattutto per la lavorazione del fustagno, della tela e della cotonina (un tessuto leggero di cotone); nel collegio San Girolamo di Piacenza veniva lavorata la seta ed il raso.

A Piacenza esisteva già il mercato settimanale che si svolgeva due giorni a settimana, mentre dall’11 al 15 agosto, solo nella nostra città si teneva un’importante fiera del bestiame che attirava genti dalle vicine Parma, Cremona, Milano e Genova.


Moneta


Il sistema monetario dello Stato era il decimale francese, cosicché una lira nuova equivaleva ad un franco; quest’annotazione ci fa facilmente comprendere il motivo per il quale fino a pochi anni fa le nostre lire erano ancora appellate in dialetto “frànc”; una reliquia linguistica destinata ad andare persa con l'arrivo dell'Euro.


Pesi e misure


A Piacenza si usavano le seguenti unità di misura:

Misure lineari: braccio da panno, braccio da seta, braccio da tela equivalenti a 0,67 m.

Misure agrarie: biolca pari a 3084 mq e la pertica piacentina pari a 762 mq.

Misure di peso: peso pari a 7,94 kg e la libbra pari a 0,32 kg.


Nella prossima puntata analizzeremo altri aspetti del Ducato di Piacenza di quegli anni, soprattutto in ambito amministrativo








Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.

giovedì 22 giugno 2017

A tòc e bucòn parlùm ad... madgòn

a cura di 
Claudio Gallini


Alla fine del sec. XIX fu emessa una legge (la n. 5849 del 22 dicembre 1888) in cui si obbligava a possedere una laurea nel caso si volesse esercitare la figura di medico, ostetrica, veterinario, dentista e così via.

In questo modo si volevano escludere dall'esercizio della professione medica tutte quelle figure che fino a prima avevano lavorato liberamente come: “mediconi”, “levatrici” e cose simili.

Un medicastro d'altri tempi...
(Fonte immagine: https://it.pinterest.com/) 

I racconti dei miei nonni, e dei miei genitori, non sono però così lontani nel tempo da quando la parola madgòn ogni tanto veniva pronunciata anche a casa mia.

Nonostante lo Stato avesse richiamato sindaci e prefetti, in concomitanza della promulgazione della legge prima citata, a controllare e denunciare ogni tipo di attività illecita, il “medicone” riscuoteva, soprattutto nei centri più rurali e poveri, più fiducia rispetto ad un dottore di tutto rispetto. 


Nel disegno vediamo una "levatrice" del passato all'opera durante un parto in casa.
(Fonte immagine: http://www.ecodibiella.it) 

Solo con l’avvento del “Medico condotto” si è probabilmente iniziato a veder pian piano sfumare queste figure; la “levatrice non laureata" ha invece resistito sino all'ultimo parto avvenuto in casa. 

Il medicone curava spesso con impiastri, decotti e cose simili ma quando egli si affidava invece a pratiche che stavano al confine tra la magia e la religione, dimostrava davvero il suo essere poco professionale. 

A Piacenza i medicastri erano chiamati, come ci suggerisce mons. Tammi, i duttùr dal bòn marcä, ovvero i dottori a buon mercato, ma a dirla tutta non valevano proprio niente. 

I creduloni, quelli che alle medicine preferivano la “stregoneria”, rispondevano di contro: 

Al val po al pel d’un madgòn che deṡ gran dutturon, ossia “vale di più il pelo di un medicone che non dieci gran dottoroni”. 

Concludiamo con la semplice analisi etimologica che ci arriva come accrescitivo di medico che a sua volta deriva dal latino “medicus”.

Voi avete mai conosciuto un madgòn?







Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.

mercoledì 14 giugno 2017

C'era una volta a Piacenza... siccità e alluvioni nella storia di Piacenza

a cura di
Claudio Gallini





Le cronache sul clima degli ultimi decenni sembrano essere sempre più nefaste; i giornali trattano con molta frequenza di alluvioni, siccità, ondate di calore, eventi estremi in genere.



Alluvione dell'ottobre 1907 a Piacenza.
Questa è strada S. Agnese (via A. Genocchi).
A sinistra, l'oratorio di S. Agnese, protettrice dei barcaioli, demolito nei primi mesi del 1919.
Foto di Giulio Milani - Immagine inserita su gentile concessione di Giovanna Cremona.



Notizie ahimè all'ordine del giorno e che ci riguardano molto da vicino. 



Il ricordo dell’alluvione che colpì Piacenza e molte zone della provincia nell'autunno del 2015 è ancora vivo.



Abbiamo inoltre la sensazione che questi eventi si stiano intensificando con prospettive di danni economici, sistemi produttivi messi al tappeto e purtroppo anche feriti per non dire peggio.

Alluvione a Roncarolo di Mortizza nel 1926, si mettono in salvo gli animali
(foto inserita su gentile concessione di Giovanni Corgnati).


Ma nel passato le questioni climatiche erano tutte rose e fiori?



Siamo andati a sfogliare alcuni volumi delle cronache passate, scritti da autori di tutto rispetto quali: P. M. Campi, U. Locati e C. Poggiali.


Guardate cosa abbiamo trovato senza troppe pretese di approfondimento.

Il Campi, nella sua opera “Dell'historia ecclesiastica di Piacenza”, scrisse che nel 1371 Piacenza fu colpita da una tremenda siccità e arsura perché da tanti mesi non era piovuto.

il canonico scrisse poi che per tale ragione il vescovo Cocconato ordinò una processione nel mese di agosto e fu aperta la tomba di S. Antonino nel chiostro di S. Maria in Cortina e riportò esattamente:

“la Divina bontà fece scendere per tutto il piacentino abbondevole pioggia, che oltre ad umettare i secchi campi, ristorò gli afflitti corpi humani”.
Piena del Po, anno 1907, in foto via Mazzini
(Foto di Giulio Milani)

Anche Umberto Locati, nella sua “Cronica dell'origine di Piacenza“ riporta di una grande siccità che colpì il nostro territorio nel 1562:
“Nell’anno 1562 fu tanta la siccità sul Piacentino, che dal Febraio infino all’Ottobre, et quindi infino alla fine dell’anno mai venne pioggia dal cielo. Per la qual cosa la maggior parte de pozzi et delle fonti rimasero secche et prive del loro solito humore”.
e proseguì:
“Ma peggio fu, che quella siccità si trasse dietro una grandissima carestia di fromento et d’ogni sorte di legumi in tanto, che il fromento, sotto la verga andò ad uno scudo lo staio”.
Il racconto del Locati prosegue indicando tutte le precauzioni prese dal Duca di Piacenza per evitare carestie ma soprattutto rincari, visto che i cereali non sarebbero bastati per sei mesi; dal Piemonte attraverso il Po arrivarono dei sacchi di frumento, segale, legumi in aiuto alla nostra popolazione.

L’anno successivo, il 1563, fu invece abbondante e ricco d’ogni cosa, “da pomi et noci inflori” come ci riferisce sempre il Locati.

Un’ immagine della piena del 13 novembre 1951 quando il livello del fiume raggiunse i 10,25 m lambendo le arcate del ponte ferroviario.
(Fonte immagine: http://blog.libero.it/occhiobello/9476557)

Il Poggiali, in merito al febbraio del 1663, scriveva così:
“[...] che per la gran neve caduta in questo tempo, li sortumi erano tanto bassi, che seccarono in Piacenza la maggior parte dei pozzi, e il Po venne tanto magro, che fu guazzato con cavalli, cosa per ricordo d’uomini non più udita”.
Per l'anno 1683 riportava queste righe:
“Fu talmente asciutto l’inverno di quest’anno e parte della Primavera eziando, che del Febbraio e Marzo vedevasi la polvere per le strade così copiosa ed arida, come nel Luglio, e nell’agosto. Non s’ebbero piogge, non nevi, non nebbie di sorta veruna, ma durò sempre eguale un ostinato sereno bellissimo, dal Novembre dell’Anno scorso (1682 Nda), fino al fine Aprile di questo, in che si ottenne la tanto sospirata, e necessaria pioggia, per intercessione di Nostra Signora del Popolo”.
Nel novembre del 1705 Piacenza fu colpita da una straordinaria inondazione del Po che provocò seri danni alla nostra città; così scriveva Cristoforo Poggiali:
“Addì 3 Novembre 1705 seguì una grandissima, ed affatto straordinaria inondazione del Po, con danno immenso del nostro Stato, e rovina intera di molte famiglie, le quali avevano i loro poderi vicino a quel Fiume”.
e proseguì:
“Arrivarono le acque fino a Fombio e dalla banda di qua, entrate nella stessa Città, allagarono tutta la Contrada, chiamata Strada Nuova, fin’oltre Chiesa di S. Maria di Borghetto. Molte furono le case diroccate dall’impeto della corrente, molte le bestie, ed anche persone annegate, e moltissimi i poderi coperti di sabbia, e renduti infruttiferi per più Anni”.
Piacenza cinquecentesca.
(fonte immagine: https://www.portaleabruzzo.com)


L’anno 1707 è ricordato negli annali come un altro anno di siccità e inondazioni come leggiamo sempre dalla mano del Poggiali:

“[...] e ciò atteso la penuria di grani, e de’ foraggi, che si prova nel corrente Anno, per la siccità della scorsa Estate, e le straordinarie inondazioni ultimamente accadute”:

Allo stesso modo scriveva nelle cronache di dieci anni dopo:

“Una sì ostinata ed esiziale siccità provossi nel Piacentino parte del Verno, e quasi tutta la Primavera, e l’Estate dell’Anno 1718, ch’io non saprei dire, se nelle Storie nostre memoria trovisi d’altra maggiore”

Il Poggiali nacque tre anni dopo e presumibilmente queste notizie gli giunsero direttamente dai suoi congiunti, e proseguì:

“Difatti non leggo, che in altra congiuntura giammai, come in questa, tante, e sì devote Processioni, preghiere solenni, limosine generali [...] Solamente trovo notato che, essendo venuto nel giorno 12 di Luglio un gagliardo temporale con acqua, che durò circa un’ora, e mezzo, ristorò alquanto la campagna sitibonda (che ha bisogno di sete Nda), ed arsa da più di sei mesi”.

Un’ora e mezza d’acqua non erano sufficienti e per il bisogno urgentissimo di pioggia, si scrisse che due giorni dopo fu portata in processione per la città la statua di san Nicola di Bari; il Poggiali aggiunse che vi fu una grande partecipazione di cittadini, tutti in “abito di penitenza” e torce accese in mano.



A questo punto mi pongo la domanda: 



Sta davvero cambiando il clima o sta cambiando il modo di informare le persone sul clima stesso? 



Voi cosa ne pensate ?




Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.




venerdì 9 giugno 2017

A tòc e bucòn parlùm ad... cunfanòn

A cura di 
Claudio Gallini


Il ritornello di una canzone piacentina, molto conosciuta, recita così:

La g'ha scussalein russ
cmè i cunfanòn di prä,
la camiṡötta biànca
cla sa tütta 'd bugä;
du bèi ucciòn celèst
ch'i fan innamurä.
L'è la po bèlla fiòla
ca végna in sal marcä!

L'avete riconosciuta vero? 

Si tratta di "Scussalein russ". 

E' una delle più belle canzoni cantate con il nostro dialetto, grazie alla musica del maestro Pierino Testori, con il testo di Egidio Carella.

A dirla tutta il testo del maestro Carella nacque come una poesia e quel grembiule indossato dalla graziosa ragazza descritta nel poema è di color rosso, un rosso così vivo che ricorda i cunfanòn, ovvero i papaveri che d'estate crescono spontanei nei prati cittadini e di campagna.


In talune zone del piacentino è denominato altresì gunfanòn, quindi a ricordarci meglio l'origine del termine. 

Infatti l'assonanza con "gonfalone", "confalone", non è a caso come ci riporta mons. Guido Tammi nella sua preziosa opera, il Vocabolario piacentino - italiano edito dalla Banca di Piacenza; difatti il colore di questo fiore sarebbe il rosso fiamma utilizzato spesso nei vessilli.


Uno scatto da primo premio eseguito dal fotografo Massimo Mazzoni
con un bel papavero cresciuto nei pressi del Pubblico Passeggio a Piacenza

In alta val Nure, a titolo di curiosità, la radice del lemma rimane la stessa ma, attraverso un suono piuttosto nasale, diviene, cõnfanòn

Curiosando ai confini del "piacentino" possiamo citare brevemente il papavero genovese: papàvo, quello milanese: pupulàna, nell'estremo alessandrino orientale invece è: fantinéta, e nel cremonese risulterebbe: campanìn.

Terminiamo questo appuntamento dedicato al dialetto, con l'invito ad ascoltare la bellissima canzone Scussalein russ che vi rallegrerà sicuramente. 








Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.


venerdì 2 giugno 2017

Upilio Faimali domatore piacentino dimenticato

a cura di
Claudio Gallini


A Gropparello e a Pontenure, in provincia di Piacenza, esistono rispettivamente un vicolo ed una via dedicate ad una persona davvero poco conosciuta ai tanti, ma che a metà del sec. XIX era considerata addirittura il più grande domatore italiano, seppur famoso principalmente all'estero.

Ci stiamo riferendo alla figura di Upilio Faimali di cui proveremo a raccontarne concisamente la storia, facendo fede a quanto scritto da Paolo Mantegazza in “Upilio Faimali memorie di un domatore di belve” e su quanto indicato nel “Nuovo Dizionario biografico piacentino”.



La copertina de:
"Upilio Faimali, Memorie di un domatore di Belve"
Compilate dall'amico di Famali, Paolo Mantegazza nel 1879.


Upilio nacque a Gropparello, in val Vezzeno, nell’agosto del 1824 da un’umile famiglia e, nemmeno adolescente, decise di emigrare Oltralpe compiendo un lungo viaggio, anche a piedi, di oltre cinquecento chilometri, fino ad arrivare a Colmar nella regione francese dell’Alsazia.

Nella ridente cittadina alsaziana Upilio si fece assumere nel circo di Didier Gautier e dopo poco tempo fu già in grado di esibirsi in spettacoli impressionanti.

In questo circo infatti, iniziò la sua carriera da funambolo con i cavalli ed imparò inoltre ad ammaestrare una scimmia, alla quale faceva cavalcare pantere, e altri felini feroci.

Le cronache ricordano successivamente che a Varsavia il Faimali presentò per la prima volta il numero della scimmia che, indossando una divisa da militare, piroettava sulla schiena di un cane ottenendo numerosi applausi.

La carriera del domatore piacentino fu da subito un gran successo soprattutto per le tecniche di ammaestramento da lui utilizzate per la doma degli animali feroci quali: pantere, iene, lupi, etc.; egli infieriva alle bestie dei potentissimi schiaffi, anziché adottare l’uso classico di fruste e forconi, acquistando in poco tempo davvero tantissima popolarità.


Un'immagine di Upilio Faimali tratta da:
"Upilio Faimali, Memorie di un domatore di Belve"
di Paolo Mantegazza.


Così scriveva di lui Paolo Mantegazza:

“Il domatore di fiere non è un uomo volgare, e basti vedere quanto ne siano rari tipi perfetti, e come talune province (Piacenza) sembrano serbarsene il privilegio e trasmetterne le virtù di padre in figlio. A fare un distinto domatore non basta il coraggio, non basta la forza, non l'agilità; ci vuole un'armonia perfetta di molte e singolari virtù”.

La storia del Faimali fu anche segnata da eventi poco fausti, soprattutto sul finire dell’Ottocento quando, acquisite in dote tutte le fiere dal rinomato circo Bidel (sposò difatti la vedova di L. Bidel), vide per ben tre volte morire l’intero serraglio a causa dell’antracite che causò delle irrimediabili infezioni.

Egli non demorse e decise di recarsi personalmente in nord Africa per recuperare nuovi animali coadiuvato da altri uomini. In oltre duecento giorni di permanenza, riuscirono a catturare quasi trenta felini che portarono via mare in Europa. 

Upilio (anche Opilio) Faimali riprese così un’intensa attività circense concentrata soprattutto in Francia ed in Germania creando nuovi shows; il successo di quel momento fu la rievocazione della caccia in Africa.

Egli entrava in una grande gabbia vestito da arabo e iniziava a lottare con le belve sempre con l’ausilio dei suoi forti ceffoni; una messinscena che provocava forti emozioni al pubblico e che riempiva i titoli dei giornali con in primo piano le foto del Faimali con la testa dentro le fauci di un leone.

Egli si guadagnò il soprannome di “re dei giaguari” per il coraggio e la celebrità conquistata durante i suoi spettacoli che gli causavano però, nel corso del tempo, mutilazioni, ferite e in più occasioni mise a repentaglio la vita.

All'età di cinquant'anni decise, soprattutto su pressioni della moglie di quel momento, di cedere l’intero serraglio e ritirarsi in terra piacentina a Pontenure, paese natale della consorto Albertina Parenti.


Egli morì a Pontenure nel 1894.







Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.