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martedì 25 aprile 2017

Epigrafi Piacentine... Felice Cavallotti

a cura di
Claudio Gallini




Riprende, dopo diversi mesi di fermo, la nostra rubrica chiamata Epigrafi Piacentine.



In questa puntata non tratteremo di un’iscrizione vera e propria, ma di una piccola scultura installata sul prospetto di un edificio del centro cittadino, in una zona non molto visibile e per tale ragione vogliamo fare luce su di essa e comprenderne il motivo di questa collocazione.




Il busto dedicato a Felice Cavallotti installato sulla facciata del Collegio di San Pietro

oggi in uso alla Biblioteca Comunale "Passerini Landi"

(Foto di Claudio Gallini) 



In via Roma al civico 72, quasi all'incrocio con via G. Carducci, troviamo la sede tardo cinquecentesca della collegiata di San Pietro adiacente all'omonima chiesa, oggi in uso alla Biblioteca Comunale Passerini Landi.



Sulla facciata di questo edificio, proprio al punto prima indicato, è posto un busto dedicato allo scrittore e politico milanese Felice Cavallotti (Milano 1842 - Roma 1898).


Tram in via Cavallotti a Piacenza, in una cartolina viaggiata in data 01/01/1921, edita da: D.G.P
un ringraziamento a Salvatore Battini per averci procurato questa bellissima immagine.


Non tratteremo in questa sede la biografia di Cavallotti, quanto il suo legame con la nostra città.

Felice Carlo Emanuele Cavallotti allacciò un rapporto continuo con Piacenza poiché qui iniziò la sua professione d’avvocato e dal 1880 al 1890, dalla XIV alla XVI legislatura, portò avanti la sua lunga carriera politica.

Una splendida cartolina datata 8-10-1908 edizioni G.G.P.
con il monumento dedicato a F. Cavallotti.
Un ringraziamento particolare a Stefano Beretta per averci messo a disposizione
questa bellissima immagine.
Egli fondò con Agostino Bertani il Partito Radicale italiano e nel 1863 fu eletto al Parlamento proprio grazie a fedeli amici quali Francesco Giarelli (giornalista piacentino) e Camillo Tassi (avvocato e parlamentare piacentino); quest’ultimo gli fece tra l’altro da padrino in un duello con il deputato conte Ferruccio Macola, che lo sfidò a morte nel marzo del 1898 a seguito di un diverbio.

Cartolina presumibilmente datata 1906-1907, appartenente all'Archivio Croce,
dove è visibile il monumento installato in onore a Felice Cavallotti in piazzetta Santa Maria.

Piacenza gli dedicò in passato l’attuale via e barriera Roma e inoltre una rappresentanza di cittadini, agli esordi del secolo scorso, gli volle dedicare un monumento che fu installato nella piazzetta Santa Maria in fondo alle vie Alberoni e Roma.


L’avvento del fascismo però cambiò le carte in tavola e da via e barriera Cavallotti, si tramutarono in via e barriera Roma e la statua di Cavallotti finì in un magazzino.

Oggi un po’ in secondo piano il busto di Cavallotti osserva mestamente la sua via, in attesa di una rivincita.










Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.




giovedì 20 aprile 2017

C'era una volta a Piacenza... Piacenza crocevia da oltre due millenni

a cura di
Claudio Gallini


In virtù delle polemiche scaturite sui media locali, ma ancor prima sulla nostra pagina Facebook "Ripensando Piacenza", in merito all’esclusione della nostra città dai festeggiamenti dei 2200 anni di vita della via Emilia che collega Rimini a Piacenza, abbiamo pensato di raccogliere qualche informazione storica, molto chiara e sintetica, che possa far luce sulla spinosa diatriba viaria, perlomeno da questo punto di vista.

Dal sito www.2200anniemilia.it, creato ad hoc per l’evento, che lega assieme in questo contesto soltanto le città di Parma, Reggio Emilia e Modena, leggiamo:
“Tre città nel cuore della regione riflettono sulla loro storia più antica quando attorno alla Via Aemilia si radicò una cultura in grado di superare differenze etniche e campanilismi”.
la didascalia prosegue poi in questo modo:
“Modena e Parma, colonie fondate nel 183 a.C. e Reggio Emilia, istituita come forum negli stessi anni, condividono il fondatore Marco Emilio Lepido, il console a cui si deve la costruzione della Via Aemilia, destinata a diventare l’elemento unificante della regione che tuttora ne conserva il nome”. 
Per la redazione di questo articolo ci affideremo, oltre agli annalisti locali, anche agli scritti del geografo greco Strabone sfogliandone naturalmente i testi volgarizzati; ci riferiamo al trattato geografico più ampio dell'antichità, utile in questo caso per lo studio del mondo romano.

A quell’epoca, nel III sec. a.C., la conquista della Pianura Padana era un ghiotto obiettivo dell’Impero Romano sia in termini di crescita territoriale, sia in visione di un’espansione economica e militare.

Nel 220 a.C. per mano di Gaio Flaminio Nepote iniziò così la costruzione di una strada che collegava Roma al nord Italia; in un solo anno terminò infatti la cosiddetta via Flaminia che dalla capitale giungeva sino a Rimini.

Estratto del “Descriptio Totius Italiae, Qua Situs, Origines, Imperia Civitatum” del sec. XVI di Leandro Alberti.
Egli fa riferimento a Strabone ed in questo passo si scrive che Emilio Lepido condusse la via Emilia da Piacenza a Rimini per congiungerla con la Flaminia condotta da Roma a Rimini.

La stessa cosa fece poco più tardi, nel 189 a.C., Marco Emilio Lepido che, come ci racconta Cristoforo Poggiali, dopo aver vinto le popolazioni liguri, impiegò le stesse per la costruzione di una nuova strada “ampissima e comodissima” battezzata con il suo nome, via Emilia; una strada che non nacque però “ex novo”, ma ricalcò antichi cammini utilizzati dalla popolazioni etrusche e greche. 

Un asse viario, lungo 177 miglia romane (circa 300 chilometri) che da Piacenza arrivava al mar Adriatico e poi a Roma.

E’ sufficiente comunque ritornare a leggere Strabone per averne conferma:
“M. Emilio Lepido condusse la via da Piacenza ad Arimine (Rimini Nda) per congiungerla con la Flaminia condotta da Roma da G. Flaminio ad Arimine, la qual fu poi rassettata da Augusto”.

La porzione di Tavola Peutingeriana o Tabula Peutingeriana che ritroviamo nell'immagine (Fonte: Wikipedia) è una copia del XII-XIII secolo di un'antica carta romana che mostra le vie militari dell'Impero romano.
In questa porzione si scorge Piacenza (Placentia) con la via Emilia sino a Bologna (Bononia) e oltre.

Il Poggiali nel primo tomo delle Memorie storiche di Piacenza pubblicate nel 1757, rincalza nuovamente Strabone con queste parole:
“Siamo debitori di questa notizia a Strabone, [...] osservo l’Itininerario di S. Antonino e la Tavola Peutingeriana descriverci chiaramente la via Emilia secondo la mente di Strabone; cioè da Rimini, dove incominciava e si univa alla via Flaminia, venendo a Bologna, e a Piacenza e di qui ripiegandosi a Milano, Brescia, Verona fino ad Aquileia”.
e continua:
“Di questa via Emilia quella parte, che si stende da Piacenza, o piuttosto dalla Trebbia fino ai confini del Bolognese, ne’ secoli di mezzo fu chiamata anche via Claudia, come ricavasi da Strumenti e Scritture autentiche di que’ tempi”.
Anche lo scrittore bolognese Leandro Alberti in “Descrittione di tutta Italia”, volume edito duecento anni prima della preziosa pubblicazione del Poggiali riporta esattamente:
“[...] Ritornando al ponte del Reno che congiunge insieme la via Emilia (com’è detto) la qual via Emilia cominciava da Rimini e trascorrea a Piacenza [...]”.

La costruzione di una strada romana (Fonte immagine: www.capitolivm.it)
In questa bella immagine è rappresentato il metodo adottato dai romani per la costruzione di strade.
Si noti tra le didascalie una curiosità legata al nostro dialetto.
Con il termine "rudus" i romani indicavano proprio il pietrame di scarto, i rottami.

L’intera zona compresa fra il Po e le montagne fu da quel momento arrangiato in funzione della via Emilia che fungeva da spartiacque tra gli Appennini e la Pianura Padana.

Come abbiamo letto, Augusto la lastricò restaurandola e definendone il capolinea non a Piacenza ma ad una decina di chilometri dal centro, nei pressi del Trebbia come confermato dai ceppi militari augustei.

Piacenza è da secoli crocevia di tante vie di comunicazione, molto importanti non solo per l’aspetto commerciale, ma anche per quello militare e religioso.

Dalla nostra città partivano, già in antico, i collegamenti con città importanti quali Milano, Genova, Tortona e Pavia per citarne solo alcune; osservando le più antiche mappe di Piacenza, o ancora meglio nei nomi di alcune vie odierne, possiamo tracciarne ancora oggi facilmente la rotta.








Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.













venerdì 14 aprile 2017

Curiosità storiche sul "Guercino da Cento" a Piacenza

a cura di 
Claudio Gallini




Dal 4 marzo al 4 giugno 2017 Piacenza è finalmente al centro dell’attenzione nazionale grazie ad uno straordinario evento che permetterà di ammirare da vicino gli affreschi del pittore centese Gian Francesco Barbieri, detto Il Guercino, presso la cupola del Duomo cittadino, oltre alla mostra dal titolo “tra sacro e profano” allestita a Palazzo Farnese e a lui dedicata.

Il Guercino è stato uno degli artisti del Seicento italiano più amati a livello internazionale e l’opportunità di ammirare le sue opere in questa modalità è davvero unica ed emozionante.

Trovate su questo sito difatti tutte le informazioni:



In questo articolo non vorremo quindi trattare in particolare di questo evento, già si è fatto tanto e tanto si farà.


Lo scopo di questo pezzo sarà invece quello di conoscere l’artista originario di Cento (MO), attraverso gli storici e autori piacentini, e non , del passato.

Saranno qui riportati i testi così come scritti dagli stessi autori; alcuni volumi risalgono addirittura al sec. XVIII pertanto per una maggiore comprensione dei contenuti, saranno indicate alcune note tra parentesi.
Iniziamo con un autore originario proprio di Cento (MO), Gaetano Atti, che così sul finire dell’Ottocento scriveva in merito al suo concittadino:

“Nel luglio del 1626 avvenuta la morte subitanea (improvvisa) in Piacenza del preclaro (nobile) Pierfrancesco Mazzucchelli Milanese soprannominato Morazzone, che aveva lasciato imperfetto il lavoro a lui confidato della Cupola di quella Chiesa Cattedrale (il Duomo di Piacenza) con averci fatto due sole figure, ne fu accollato il carico al nostro Barbieri da quel Vescovo Monsignor Giovanni Linati nobile parmigiano, e canonici perché compisse egli l’incorniciato ornamento. Dal luglio pertanto del 1626 fino al dicembre egli dimorò in Piacenza e tale intendimento, e intermesso (sospeso) il lavoro soltanto le Feste della Natività del Signore, nel seguente 1627 diede fine al gravissimo affresco, che rapisce, ed incanta anche tuttora chi a contemplarlo in quelle sacre soglie si reca”.
Nell’interessantissima guida dedicata alla nostra città portata a stampa nel 1842 dalla Tipografia Tagliaferri, che aveva sede in Piazza de’ Cavalli, viene data qualche informazione in più su quanto già indicato da Gaetano Atti:

“Ora ad osservare la gran cupola la quale è di disegno posteriore a quello del tempio ed innalzata forse quando fu fatto il campanile. Tutta l’opera nel dipingerla era stata allogata (ordinata) al cav. Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone [...] ma dipinti due degli otto scompartimenti del catino [...] non poté far più, essendo morto [...] in età di 55 anni”.
Il racconto prosegue con una curiosità legata all’artista centese:
“[...] per loro (i profeti dipinti negli spicchi della cupola) è l’essere così vicini agli altri sei profeti fatti dal suo successore, cioè da quel mago della pittura, che qui pose il meglio che mai facesse. Il quel fu Gian Francesco Barbieri da Cento, per strabismo all’occhio destro, detto il Guercino”.


(Porzione della cupola del Duomo di Piacenza affrescata dal Guercino. Fonte immagine: www.clponline.it)

Dallo stesso tomo leggiamo anche la spesa sostenuta per l’opera in cattedrale:


“La spesa di tutte le opere descritte fu sostenuta per circa un terzo dal vescovo Linati e pei due altri terzi dal Capitolo. Al Morazzone toccarono fr. 1757,53; al Guercino, oltre gli alloggi ed altri comodi, fr. 12777,50”.

Il Poggiali nell’undicesimo delle famose “Memorie storiche della città di Piacenza” pubblicato nel 1763, riferisce anch’egli su quanto percepito dal Guercino per quell’opera; in tal occasione lo scrisse naturalmente nella moneta a suoi tempi in uso:

“Fu nel novembre di quest’anno, che l’egregio pittore bolognese Gian Francesco Barbieri, detto comunemente il Guercino da Cento, diede compimento all’imortali fatiche sue circa la Cupola della Chiesa nostra cattedrale, dipinta, e di stucchi dorati ornata a spese del Capitolo della medesima, e del fu Monsignor Giovanni Linati, il quale con una limosina di oltre quindicimila lire di quei tempo, aveva contribuito assaissimo all’impresa. [...] Dugentosessantuno Ducatoni, otto lire, un soldo e sei denari ebbe in sua parte il Morazzoni; e Ducatoni millenovecento, oltre l’abitazion gratis, ed altri comodi, si diedero al Guercino”.

In conclusione il Poggiali tenne a specificare che:

“Il quale (il Guercino) pose mano all’opera nel maggio dell’anno 1626, e al terminò, come dissi, nel corrente Novembre con gloria grandissima, e pari soddisfazione del prefato (suddetto) Capitolo, e di tutta la nostra città. Non soffre il mio istituto, che io mi fermi a descrivere, ed encomiar esse pitture”.

Nella foto potete ammirare un antico manoscritto che espone il compenso al Guercino per l'opera compiuta nella nostra cattedrale (Foto di Claudio Gallini)


Così il conte Carlo Garasi scriveva del Guercino nel libretto chiamato “Le pubbliche pitture di Piacenza” del 1780, in merito agli splendidi affreschi della cupola del duomo:

“Nel 1626 lì 12 maggio sottentrò (sopraggiunse) al lavoro il Celebre Guercino da Cento e lo finì nel 1627. Fu il Guercino scolaro di Benedetto Gennari. Egli ebbe (così di lui scrive Zanotti) un fare tratto da alcune tavole di Lodovico Caracci, ma con un certo suo modo tutto particolare. Si invaghì principalmente d’una maniera forte, e robusta, e superò ogn’altro Maestro nella fierezza delle tinte sull’orma di Caravaggio, unendo però in questa maggior grazia, e correzione. Morì d’anni 76 nel 1666”.

Lo stesso autore, nel descrivere le pitture presenti a quel tempo nella bellissima S. Sisto, fa riferimento ad un quadro di S. Francesco riportante la firma del Guercino, così come in S. Maria di Campagna accenna a:

“Sopra l’arco della cappella di S. Pasquale il Tobia, che abbrucia il fegato del pesce, e l’Arcangelo Raffaele, che lega l’immondo spirito, è di Daniele Crespi Milanese, nacque a Reggio e fu scolaro del Guercino”. 


(Vista interna d'insieme della cupola affrescata dal Guercino nel Duomo di Piacenza. Fonte immagine:www.panorama.it)


Così anche per un altro dipinto posto sopra l’altare di S. Pietro d’Alcantara, la Giacobedda, madre di Mosè e d’Aronne eseguito da Antonio Triva da Reggio, anch’esso scolaro di Gian Francesco Barbieri, (Descrizione dei monumenti e delle pitture di Piacenza corredata di notizie istoriche, Parma, 1828).

Scriveva in onore del Guercino il “nostro” politico e letterato Luciano Scarabelli con queste righe:

“Il Guercino […] con quel suo fare robusto e fiero nelle tinte, grande e vario nelle composizioni, e nello stesso tempo aggraziato e corretto mescolando il correggesco al carracesco eclissò il Morazzone dipingendo gli altri sei scompartimenti del catino, le sibille sotto il catino, i quattro spartiti dell’annunzio ai pastori, della loro visita, della circoncisione di Gesù del ritorno dall’Egitto, e quel fregio stupendo a due soli colori detto perciò a chiaro scuro (maniera nella quale il Barbieri è originale mirabile) che con puttini a color naturale gira all’intorno”.

E aggiunse:

“Disse il Lanzi di queste opere sembrare che il Guercino dipingesse a prova con Pordenone, e che in finezza di stile lo superasse essendo questo il suo capolavoro. Ma i lavori di Linicio sono a questi anteriori”.

Dalla biografia di Barbieri, compilata da Jacopo Alessandro Calvi nel 1842 leggiamo invece queste interessanti curiosità:

“[…] Si vide accolto in Piacenza con somma distinzione e cortesia; cominciò la bell’opera standoci occupato dal mese di luglio (1626) sino al dicembre di quest’anno, indi l’interruppe per portarsi a Cento alle feste di Natale, e nel seguente 1627 la diede totalmente compita”.

E proseguì:

“E’ il catino di questa cupola diviso da costole […] in otto parti uguali, cosa certamente incomoda ad un pittore, che si vede in tal guisa legate le mani, né può sfogarsi con invenzioni ricche, e peregrine, scorrendo come per un cielo aperto in balia del proprio genio: convenne dunque entro ognuna di queste parti, o siano spazi colorire un Profeta”.

In una piccola nota il Calvi scrisse ancora in merito agli affreschi della cupola del Duomo:

“Questi affreschi sono ancora il più incantevole ornamento della Cattedrale di Piacenza”.

Infine vogliamo riportare le parole dell’avv. Antonio Domenico Rossi, uno storico piacentino d’adozione e un po’ ignorato (ce ne occupammo nel blog in questo articolo, ), nel suo prezioso volume Ristretto di Storia Patria ad Uso De' Piacentini del 1832:

“Noi non istaremo ad encomiare le pitture del Guercino, perché il sol mirarle ne fa conoscere il pregio; non lasceremo però di dar giusta lode all’illustrissimo e reverendissimo Capitolo, che così bene le ha sapute conservare, per cui meritossi che il celebre Lord Egerton, di passaggio per questa nostra città, dopo averle vedute, volesse aspettare che i Canonici uscissero dal coro, onde, insieme radunati complimentarli per tale lodevolissima conservazione”.

Riteniamo che il “Lord Egerton” cui fece riferimento l’avv. Rossi sia Francis Leveson - Gower, I conte di Ellesmere (1º gennaio 1800 – 18 febbraio 1857), politico e viaggiatore inglese probabilmente di passaggio a Piacenza nel suo peregrinare.

In conclusione di questo breve articolo, vogliamo sperare di aver dato qualche informazione aggiuntiva a chi già conosceva la figura di Giovanni Francesco Barbieri (detto Il Guercino) e contestualmente abbia stuzzicato la curiosità a chi non ha tuttora visitato questa mostra ottimamente organizzata dalle istituzioni locali.












Claudio Gallini è perito industriale e appassionato studioso di storia locale e di dialetti, soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonti d'ispirazione per le sue ricerche.






giovedì 6 aprile 2017

A tòc e bucòn parlùm ad... raṡdùra (razdùra)

A cura di
Claudio Gallini


Una parola dialettale pronunciata dai piacentini forse più un tempo rispetto ad oggi è radùra e raṡdùr, che potremmo rispettivamente identificare con la massaia e il capo famiglia.

Un tempo la raṡdùra era inquadrata come la donna di casa (la suocera o la mamma) alla quale bisognava portare un doveroso rispetto, le nuore probabilmente anche un giustificato timore, e ad ella bisognava sottostare e obbedire.

Lo scrivente, che ha radici dell’alta val Nure, può aggiungere altresì che la raṡdùra di montagna chiamata più comunemente mamà, nunéna o nòna, impartiva anche precisi ordini quali la cura della stalla col relativo bestiame, la manutenzione del pollaio, il lavoro nei campi, e altri lavori spesso umilianti.

Tutte le donne di casa erano quindi dipendenti dalla raṡdùra che dal marito aveva sovente la procura dell’amministrazione delle entrate e delle uscite familiari; quando una nuora doveva acquistare anche un grembiule nuovo era costretta a chiederle il denaro ma poche volte la domanda veniva accettata.

La versione maschile raṡdùr è invece orientata al marito della massaia ovvero il capo famiglia, il Signore che governava l’azienda agricola che in campagna potremmo identificare col mezzadro, responsabile del buon andamento della famiglia; quando veniva a mancare il marito, la moglie amministrava a trecentosessanta gradi l’intera famiglia. 

In tutta l’Emilia ritroviamo questa voce che a Bologna, ad esempio, suona come arzdòura arzdòur, o in Romagna come azdòra azdòr con lievi varianti a seconda della zona; questa è una voce tipicamente emiliana che deriva dal latino regere con il significato di “reggitrice” ma anche di direttrice. 

Nell'uso corrente diremmo semplicemente, massaia e “capoccia” per l’uomo.

A titolo di curiosità Lorenzo Foresti, nel suo vocabolario piacentino-italiano del 1836, ci riporta la voce in questo modo: razdòra razdòr

I confini linguistici, infine, non sempre rispettano quelli provinciali, difatti troviamo questo lemma, con le dovute variazioni linguistiche, anche ai confini provinciali dell’Emilia verso nord, come nel pavese, nel cremonese o nel mantovano per citarne solo alcuni.








(In foto una raṡdùra degli anni '30 del sec. XX, Archivio A. Morisi)







Claudio Gallini è perito industriale ma appassionato studioso di storia locale, e di dialetti soprattutto dell’alta val Nure dove risiedono le sue radici, fonte d'ispirazione per le sue ricerche.